DA ZURIGO. Piccoli lavoratori studiano

«E tu cosa vuoi fare da grande?». Ora che siamo grandi, non lo sappiamo più. O perlomeno, abbiamo messo nel cassetto i sogni di quando eravamo bambini. L’astronauta al primo posto: ci rendiamo conto di quanto fosse facile guardare il futuro con il casco spaziale in testa, a guisa di mosca, che vede un mosaico panoramico, o per dirla in altri termini, le scale montaliane. Abbiamo realizzato che per prendere l’ascensore ialino della fabbrica di cioccolato ci vuole ben altro che un Bachelor in ingegneria meccanica. Finito il tempo delle fantasie, comincia quello della logica di mercato, e lavorare non è più solo un’idea usa e getta. Come ci siamo accorti che la stanchezza è una condizione di base delle nostre giornate, così è diventata allettante, necessità, la prospettiva di un lavoro. Remunerato ovviamente. Per riuscirci, a livello strategico, ognuno cerca di tirar fuori dal cappello i conigli che ha. In particolare all’università una scelta si impone: studiare una delle cose che ci piace, o prevedere un percorso che ci porterà a fare il mestiere cui abbiamo puntato? Un mago non rivela mai i propri trucchi, ma siamo davvero sicuri che molti degli impieghi di oggi esisteranno ancora tra un lustro? Oltretutto la probabilità di finire a fare un lavoro del tutto diverso da quello che abbiamo studiato è molto alta. O addirittura saremo noi ad inventarci il lavoro, come analista di big data o video blogging o docente di un corso di aggiornamento per gli uffici di orientamento scolastico. Come direbbe Alberto Sordi nel film I Vitelloni: «Lavoratori: … prrr (pernacchia)!», prima che l’auto si fermi.

Caroline Bianchi

Pubblicato sull’Universo, giornale studentesco universitario indipendente, novembre 2019.

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